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| 30/06/2005
Produrre in Cina: una guida per i nuovi Marco Polo

Produrre in Cina: una guida per i nuovi Marco Polo

IN UNA RICERCA ANCORA INEDITA I PROBLEMI REALI AFFRONTATI DALLE IMPRESE ITALIANE E I SUGGERIMENTI SU COME SUPERARLI: DALLA SCELTA DEL PARTNER ALLA LOCALIZZAZIONE, DALLA GESTIONE DELLA MANODOPERA ALLA STIMA DEI COSTI

La scelta del partner ideale, la gestione e i costi del personale italiano espatriato e in trasferta, la localizzazione degli impianti e la gestione della manodopera cinese sono i problemi concreti che ogni impresa italiana che voglia investire in Cina deve essere pronta ad affrontare, secondo un’indagine della Divisione ricerche della Sda Bocconi, che sarà pubblicata a fine anno (Elena Dalpiaz, Andrea Paciaroni, Marco Sampietro, Produrre in Cina).

Le iniziative italiane in Cina sono attualmente circa 500, con una maggioranza di rappresentanze commerciali e un 40% circa a carattere produttivo. L’analisi si è focalizzata sugli stabilimenti presenti nella provincia del Guangdong, grazie alla stretta collaborazione da parte di dieci imprese sulle 50 esistenti. Se quasi tutti giustificano la propria presenza in Cina con il basso costo dei fattori produttivi non mancano però le imprese che si sono insediate per essere vicine a un mercato o a singoli clienti importanti, soprattutto nei settori elettronico e meccanico.

Uno dei motivi principali del fallimento o del cattivo funzionamento di alcune iniziative è una cattiva scelta dei partner locali. “Una delle scelte migliori sembra essere quella di associarsi a un fornitore”, spiega Paciaroni. “In questo modo per il partner locale la joint venture è un nuovo, importante cliente da salvaguardare. Il fornitore, inoltre, di solito non conosce il mercato di sbocco e non ha la tentazione di integrarsi a valle tradendo il partner italiano. Sono state, invece, fallimentari le joint venture con acquirenti che controllano il mercato e possono mirare a sottrarre la tecnologia e realizzare il prodotto in proprio”.

I costi del personale italiano residente e quelli per le trasferte di chi deve periodicamente essere presente in Cina sono facili da sottovalutare. A fronte di uno stipendio medio di 100 euro al mese per un operaio cinese e di 3-400 euro per un impiegato, un manager italiano espatriato costa all’impresa circa il doppio di quanto costerebbe in patria. “In media, un manager italiano costa come 70 operai cinesi”, calcola Paciaroni. “Se il motivo della delocalizzazione è il risparmio sulle spese di manodopera, in impianti di poche decine di operai è un peso davvero ingente. Si capisce, allora, perché abbiamo rilevato solo una trentina di residenti negli otto impianti nei quali li abbiamo contati, e quasi tutti concentrati negli impianti maggiori. In tre casi non ce n’era neppure uno”. Se, però, nei primi anni le imprese dovevano trovare all’esterno i manager disposti a trasferirsi in Cina, oggi non ci sono più difficoltà e, anzi, cominciano a presentare la propria candidatura anche gli operai. Ormai esiste un vero mercato del lavoro degli espatriati, con manager italiani che si sono trasferiti da un’impresa all’altra senza lasciare la Cina.

Quasi tutte le imprese, se potessero tornare indietro, valuterebbero più accuratamente la localizzazione degli impianti. “In un ambiente dove ogni cosa va negoziata è importante non essere le cenerentole dell’industrial park in cui si è insediati”, spiega Paciaroni, “perché questo influisce, solo per fare un esempio, sulla durata dei blackout programmati tanto frequenti in Cina. I più forti riescono a evitarli, i piccoli ne soffrono di più”.

La manodopera cinese fa registrare tassi di turnover che arrivano anche al 100% l’anno, soprattutto perché le imprese tendono a mantenersi sui salari minimi. Solo di recente i più consapevoli hanno cominciato a usare leve come la qualità della vita, in un ambiente nel quale gli operai vivono in immensi dormitori all’interno degli stessi parchi industriali. “Un grande impianto italiano ha ridotto drasticamente il turnover quando ha costruito un piccolo centro sportivo con una campo da basket con illuminazione notturna”, dice ancora Paciaroni, “e non sono infrequenti sale da karaoke, bar, biliardi e campi da badminton”. In mancanza di questi benefit, un’offerta da cinque dollari in più al mese è sufficiente a far trasferire il lavoratore da un’impresa all’altra.

Le imprese in Cina da più tempo sono ormai entrate in una Fase 2 della produzione. In un primo tempo si sono fatte prendere la mano dal basso costo della manodopera e hanno assunto senza criterio. Ora si sono rese conto che i loro costi sono del 5-10% più alti di quelli dei concorrenti cinesi. Stanno, perciò, riorganizzando la produzione secondo criteri più razionali perché si rendono conto che la crescente qualità delle produzioni cinesi non giustifica più un forte differenziale di prezzo finale.

Fabio Todesco

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Barbara Orlando
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