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Comunicati stampa Egea | 06/05/2005

Il nazista della scrivania accanto

PER COREY ROBIN, LO SCIENZIATO SOCIALE AMERICANO AUTORE DI “PAURA”, L’AMBITO IN CUI I CITTADINI SONO PIù VIOLENTEMENTE MINACCIATI DAL POTERE è IL LUOGO DI LAVORO

Adolf Eichmann, il criminale nazista considerato la mente logistica e organizzativa della deportazione degli Ebrei, non è stato che un piccolo carrierista, preoccupato dei rapporti di potere all’interno della struttura militare e della qualità della propria vita sociale. Corey Robin, professore di scienze politiche al Brooklyn College, City University of New York, ribalta la celeberrima tesi di Hannah Arendt nella Banalità del male e individua nel posto di lavoro il luogo in cui, nel mondo moderno, si esplica l’uso politico della paura (Paura. La politica del dominio. Università Bocconi editore, Milano, 2005, pagine 336, 25 euro).

In un contesto politico che si fa sempre più liberale, “la costituzione ostacola un uso sregolato delle armi fisiche della paura”, scrive Robin, e perciò “le élite devono ricorrere alle armi non violente della società civile, che non sono soggette ad alcuna limitazione costituzionale: i licenziamenti, le liste nere, la negazione delle promozioni e delle opportunità di miglioramento economico, l’ostracismo, l’esclusione o l’espulsione dai privilegi dei circoli di sodali, colleghi e amici, le comuni forme di umiliazione e degradazione”.

L’uso politico della paura sul luogo di lavoro mira alla conformità sia nei comportamenti sociali extralavorativi, sia nei comportamenti sul luogo di lavoro, perché anche questo è un interesse sentito da alcune élite. “In molti casi”, scrive ancora Robin, “il controllo e il potere sono più importanti dei profitti e della produttività per i dirigenti”. Dal momento che “quelli che esercitano il comando sul luogo di lavoro possiedono un livello di potere sui loro subordinati che va molto al di là di quanto richiesto dalle esigenze di efficienza”, si creano grandi spazi di strumentalizzazione.

Il tratto più interessante, e meglio applicabile a società diverse da quella americana, è però l’individuazione di una sottile divisione del lavoro nell’esercizio della paura in ufficio o in fabbrica. Ogni sforzo delle élite sarebbe infruttuoso, afferma Robin, se, nei luoghi di lavoro, non vi fossero complici e spettatori passivi, che accettano di barattare l’ideale di giustizia con il quieto vivere. E si tratta solo di quieto vivere, perché è impressionante osservare, come fa Robin, quanto improbabili e lievi siano in realtà gli effetti della mancata collaborazione. Persino i soldati nazisti che si sono rifiutati di partecipare allo sterminio degli Ebrei non sono stati praticamente perseguiti, anche se chi ha accettato ha poi addotto come scusa, nei tribunali di guerra, la paura di una reazione violenta da parte delle gerarchie. Robin documenta la stessa realtà anche negli anni del maccartismo, evidenziando il ruolo essenziale di chi accettò di piegarsi e di fare i nomi di colleghi simpatizzanti per il comunismo in nome, quasi sempre, del benessere economico della famiglia.

L’analisi di Robin privilegia indubbiamente la realtà americana, tanto che la sezione dedicata alla paura esercitata dalla società civile e sul luogo di lavoro si intitola Paura American style, ma le linee dell’argomentazione valgono per tutte le società occidentali, forse più per quanto riguarda la finalità di conformità aziendale che non politica in senso lato.

Dopo la lettura di Paura ognuno di noi si chiederà chi, tra i propri colleghi, in altre circostanze avrebbe accettato di diventare un Eichmann.

Fabio Todesco

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