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| 13/02/2009

Il futuro della Van Sanità

NEI PAESI BASSI DAL 2006 è IN VIGORE UN SISTEMA SANITARIO INTERAMENTE PRIVATO. PER ORA FUNZIONA, MA SUL LUNGO PERIODO?

“Squadra che vince non si cambia”. L’affermazione, di chiara matrice sportiva, è di Simone Ghislandi, assistant professor presso il Dipartimento di analisi istituzionale e management pubblico dell’Università Bocconi, e la squadra vincente è, in questo caso, il Servizio sanitario nazionale italiano, giudicato nel 2000 dall’Oms il secondo migliore al mondo dopo quello francese. Dati recenti tuttavia sembrano far registrare un peggioramento e in un Libro Verde pubblicato dal ministero del welfare, fra le varie proposte, si auspica un potenziamento dei fondi sanitari.

“E’ circa dalla metà degli anni 90 che alcuni paesi europei hanno abbracciato, in campo sanitario, i principi della libera scelta e della competizione. Tuttavia, poiché siamo in Europa, non è pensabile un sistema come quello degli Stati Uniti dove un sesto della popolazione è senza assicurazione, ed è sempre viva la preoccupazione che in un mercato competitivo possano determinarsi ineguaglianze d’accesso non tollerabili”.
Come è possibile quindi far quadrare il cerchio fra scelta e universalità? Il modello migliore fra quelli privati, secondo Ghislandi, al momento, seppure con alcune questioni insolute, è quello olandese, interamente privato dal 2006. Come funziona? “In Olanda esistono circa 30 assicurazioni private (sickness fund) in competizione tra loro. I cittadini sono obbligati a sottoscrivere una polizza pagando una quota composta per il 45% da un premio privato e per il 50% da un contributo di solidarietà proporzionale al reddito, mentre il restante 5% viene erogato direttamente dallo Stato. La quota privata, inoltre”, continua Ghislandi, “non è in rapporto al rischio di ammalarsi di ogni singolo cittadino, perché altrimenti anziani e malati cronici pagherebbero premi troppo elevati, ma è stato istituito un community rating, un prezzo medio valido per tutti”.

Il sistema olandese è un perfetto esempio di aggiustamento al rischio. Se infatti non vi fosse la preponderanza della quota legata al reddito ma gli assicurati versassero un premio uguale per tutti, quale convenienza avrebbero i sickness fund a legarsi agli individui a maggior rischio? “I governi possono semplicemente imporre alle assicurazioni di accettare chiunque”, dice il docente della Bocconi, “ma questo può innescare un pericoloso gioco al ribasso nella qualità delle prestazioni offerte. Se un’assicurazione sceglie di non avere accordi con strutture dove è possibile sottoporsi a dialisi, per esempio, i malati con quel problema, necessariamente ‘costosi’ per l’assicurazione, saranno costretti a scegliersi un altro sickness fund”. Il gioco si fa perverso, e il ruolo dello Stato quale ‘regolatore’ è fondamentale, anche se in questo modo rischia di annullarsi quel sistema di competizione fra assicurazioni che dovrebbe portare a una maggiore efficienza. Tornando al sistema olandese, la quota del 50% pagata dagli assicurati in proporzione al proprio reddito confluisce in un fondo comune, amministrato dal governo, “che serve per l’aggiustamento al rischio”, spiega Ghislandi, “viene cioè impiegato per risarcire le assicurazioni che si assumono più rischi, in parte in anticipo calcolato sulla differenza tra rischio medio e rischio reale, in parte ex post con riferimento alla cifra effettivamente spesa”. Il sistema olandese si regge dunque sull’equilibrio tra questi due sistemi di rimborso. “Personalmente però credo che sia preferibile individuare dei meccanismi di adjustment risk con i quali prevedere il rischio di spesa legato a ciascun assicurato, poiché, se si dà troppo dopo, non ci sono più incentivi all’efficienza”.
Davide Ripamonti
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